domenica 1 giugno 2014

Le scoperte di Padre Carlo Crespi e gli artefatti che fanno traballare l’archeologia convenzionale

La storia di Padre Crespi è una delle più enigmatiche mai raccontate: una civiltà sconosciuta, manufatti incredibili, enormi quantità d'oro, simboli appartenenti ad una lingua sconosciuta e strane rappresentazioni che collegano l'America Precolombiana agli antichi Sumeri. La cronaca degli eventi, e il modo in cui sono stati trattati, secondo molti rivela ancora una volta una cospirazione per nascondere la verità sulla storia dell'umanità.
Padre Carlo Crespi nacque a Milano nel 1891 e morì nel 1982.
E’ stato un prete missionario salesiano che ha vissuto nella piccola città di Cuenca, in Ecuador, per più di 50 anni, dedicando la sua vita al culto e alle opere di carità.
Il religioso era una persona dai molti talenti: è stato educatore, botanico, antropologo, musicista, ma soprattutto un grande umanista.
Nel 1927, la sua vocazione missionaria lo ha portato a vivere fianco a fianco con gli indigeni ecuadoregni, facendosi carico degli indigeni e conquistandosi il rispetto della tribù dei Jibaro, i quali cominciarono a considerarlo come un vero amico.
Come segno di riconoscenza, nel corso dei decenni gli indigeni hanno donato a Padre Crespi centinaia di manufatti archeologici risalenti ad un’epoca sconosciuta, spiegando che si trattava di oggetti trovati in un tunnel sotterraneo che si trovava nella giungla dell’Ecuador. Molti di essi erano in oro, intagliati con geroglifici di una lingua sconosciuta e che ancora oggi nessuno è stato in grado di decifrare.
Gli oggetti erano stati recuperati dagli indios in una caverna molto profonda, detta in spagnolo Cueva de los Tayos, posizionata nella regione amazzonica conosciuta come Morona Santiago. La grotta, che si trova a circa 800 metri sul livello del mare, fu chiamata Tayos a causa dei caratteristici uccelli quasi ciechi che vivono nelle sue profondità.
Essendo un uomo di cultura, Padre Crespi presto si rese conto che gli straordinari manufatti presentavano inquietanti analogie con l’iconografia delle antiche civiltà mesopotamiche, suggerendo un qualche collegamento tra culture sviluppatesi su versati opposti del pianeta.
Come riporta Yuri Leveratto nel suo approfondito resoconto, Crespi era convinto che le lamine e le placche d’oro a lui donate, e da lui studiate, indicassero senza ombra di dubbio che il mondo antico medio-orientale antecedente al diluvio universale fosse in contatto con le civiltà che si erano sviluppate nel Nuovo Mondo, già presenti in America a partire da sessanta millenni fa.
Secondo Padre Crespi, gli arcaici segni geroglifici che erano stati incisi, o forse pressati con degli stampi, non erano altro che la lingua madre dell’umanità, l’idioma che si parlava prima del diluvio universale. Nella sua ingenuità di uomo di fede e di cultura, il religioso non si rese conto che le sue idee mettevano fortemente in discussione le teorie consolidate dell’archeologia convenzionale (ufficiale).
Visto che i manufatti donatigli avevano formato una collezione di oggetti davvero numerosa, nel 1960 Crespi chiese e ottenne dal Vaticano l’autorizzazione per creare un museo nella missione salesiana di Cuenca.
Quello di Cuenca è stato il più grande museo che sia mai stato creato in Ecuador, almeno fino al 1962, quando un misterioso incendio distrusse completamente la struttura, e la maggior parte dei reperti fu perduta per sempre. Tuttavia, Crespi pare sia riuscito a salvare alcuni pezzi nascondendoli in un luogo a lui solo noto.


Nel 1969, Juan Moricz, un ricercatore ungherese naturalizzato argentino, esplorò a fondo la caverna, trovando molte lamine d’oro che riportavano delle incisioni arcaiche simili a geroglifici, statue antiche di stile mediorientale, e altri numerosi oggetti d’oro, argento e bronzo: scettri, elmi, dischi, placche. Fu Crespi ad indicare a Moricz come entrare nella caverna e come trovare la giusta via nel labirinto senza fondo situato nelle sue profondità.
Nel 1972, fu lo scrittore svedese Erik Von Daniken a diffondere la notizia del ritrovamento del ricercatore ungherese. Quando la notizia dello strano ritrovamento di Moricz si sparse nel mondo, molti studiosi decisero di esplorare la caverna con spedizioni private.
Una delle prime e più ardite spedizioni fu quella condotta nel 1976 dal ricercatore scozzese Stanley Hall alla quale partecipò l’astronauta statunitense Neil Armstrong, il primo uomo che mise piede nella Luna, il 21 luglio 1969. Si narra che l’astronauta riferì che i tre giorni nei quali rimase all’interno della grotta furono ancora più significativi del suo leggendario viaggio sulla Luna.

Verso la fine degli anni ’70, Gabriele D’Annunzio Baraldi visitò a lungo Cuenca, dove conobbe sia Carlo Crespi che Juan Moricz. In quell’occasione Carlo Crespi confidò all’italo-brasiliano che la Cueva de los Tayos era senza fondo e che le migliaia di diramazioni sotterranee non erano naturali, ma bensì costruite dall’uomo nel passato.
Secondo Crespi la maggioranza dei reperti che gli indigeni gli consegnavano provenivano da una grande piramide sotterranea, situata in una località segreta. Il religioso italiano confessò poi a Baraldi che, per timore di futuri saccheggi, ordinò agli indigeni di coprire interamente di terra detta piramide, in modo che nessuno potesse mai più trovarla.
Baraldi notò che in molte placche e lamine d’oro erano ricorrenti vari segni: il sole, la piramide, il serpente, l’elefante. In particolare la placca dove venne incisa una piramide con un sole nella sua sommità venne interpretata da Baraldi come una gigantesca eruzione vulcanica che avvenne in epoche remote.
Quando Carlo Crespi morì, nell’aprile del 1982, la sua fantasmagorica collezione d’arte antidiluviana fu sigillata per sempre, e nessuno poté mai più ammirarla. Vi sono molte voci sulla sorte dei preziosissimi reperti raccolti pazientemente dal religioso milanese. Secondo alcuni furono semplicemente inviati in segreto a Roma, e giacerebbero ancora adesso in qualche caveau del Vaticano.
Molti archeologi convenzionali hanno accusato Padre Crespi di essere un impostore o semplicemente un visionario, il quale ha spacciato come autentiche delle lamine d’oro che erano semplicemente dei falsi o delle copie di manufatti medio-orientali. Ma a prescindere dalle accuse dell’establishment archeologico, restano le fotografie e le numerose testimonianze di molti studiosi a prova della loro veridicità.
Come scrive Leveratto nel suo articolo, l’impressione che si ha a leggere questa vicenda è che qualcuno abbia voluto occultare i fantastici pezzi archeologici collezionati e studiati dal religioso milanese. Ma perché? Eppure, come hanno dimostrato gli studi di Richard Cassaro, i paralleli tra le culture mesopotamiche e quelle precolombiane sono palesemente evidenti.
Perchè gli archeologi di epoca vittoriana ritenevano pacifica l’esistenza di una cultura madre antecedente che avrebbe poi generato culture figlie con lo stesso sistema iconografico, simbolico e religioso? E perchè oggi questa ipotesi è avversata ferocemente da archeologi militanti che negano a tutti i costi questa possibilità? Perchè non ricercare pacificamente? Quale valenza avrebbe per l’umanità sapere che discendiamo da un unica, avanzata civiltà globale antidiluviana?

Nessun commento:

Posta un commento